Sembra destinato finalmente a realizzarsi quest’anno l’ambito obbiettivo degli Stati Uniti di diventare esportatori netti di petrolio, reso raggiungibile grazie allo sfruttamento dei giacimenti di shale oil avviato nel corso dell’ultimo decennio.
Secondo i dati raccolti da Refinitiv e riportati dalla broker house genovese Banchero Costa nel suo ultimo report, infatti, nel corso del 2019, nonostante una crescita dell’export, arrivato a 129,5 milioni di tonnellate (+48,6%), e una parallela diminuzione dell’import, sceso a 169 milioni di tonnellate (-25,7%), gli USA sono rimasti comunque un importatore netto di greggio.
Condizione che, tuttavia, sarebbe destinata a mutare proprio quest’anno, in parte a causa degli effetti del coronavirus. La pandemia ha infatti ridotto la domanda interna di carburanti e di conseguenza sono calate le importazioni di petrolio dall’estero. Nei primi 7 mesi dell’anno l’import americano di greggio si è fermato infatti a 82,2 milioni di tonnellate, con un calo del 21,8% rispetto ai 105,2 milioni di tonnellate del periodo gennaio-luglio 2019.
Nei primi 7 mesi del 2020, la prima fonte è rimasta il Medio Oriente, da cui è arrivato il 29,8% di tutto il greggio importato dagli USA. Nel dettaglio, è cresciuto del 26% l’import dall’Arabia Saudita, mentre gli acquisti dall’Iraq sono crollati del 45%, così come quelli dal Kuwait, diminuiti del 78%.
Dopo il Medio Oriente, la seconda fonte di petrolio degli Stati Uniti è costituita dal vicino Messico (26% del totale), seguita dal Sud America (col 16% circa).