venerdì, Aprile 19, 2024

INTERVISTA DEL MESE: A COLLOQUIO CON CLAUDIO SPINACI, PRESIDENTE DELL’UNIONE PETROLIFERA

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Una geografia del mercato petrolifero in costante evoluzione, un processo di de-carbonizzazione in atto che ponte davanti agli operatori dell’industria energetica nuove sfide e chiede loro importanti investimenti, e la comparsa di carburanti innovativi come i bio-diesel e il GNL.

Di questo, e di altro, abbiamo parlato con Claudio Spinaci, Presidente dell’Unione Petrolifera, associazione che riunisce le principali aziende petrolifere italiane attive nel downstream, quindi nell’ambito della trasformazione del petrolio e della distribuzione dei prodotti petroliferi.

 

Presidente, quale è l’attuale dinamica dei consumi petroliferi e lo stato dell’industria petrolifera?

Nel 2018 la fonte petrolifera ha coperto oltre il 36% del fabbisogno energetico del Paese, seconda solo al gas che ne ha soddisfatto circa il 37%, in un contesto di lieve calo della domanda totale di energia (-0,4%) dovuta sia al rallentamento dell’economia che al clima più mite che ha caratterizzato lo scorso anno. I consumi petroliferi, dopo anni di continua flessione, sono tornati a mostrare un segno positivo (+1,2%) attestandosi intorno ai 61 milioni i tonnellate, trainati dal crescente fabbisogno della petrolchimica (+12,2%) e dei carburanti per l’aviazione e per la marina (rispettivamente +6,7% e +2,1%) che hanno risentito degli effetti positivi dei flussi turistici verso il nostro Paese.

Tali consumi sono stati garantiti da un settore industriale, decisamente all’avanguardia, che poggia su un sistema di raffinazione composto da 13 raffinerie (di cui 2 bioraffinerie) che lo scorso anno hanno lavorato circa 71 milioni di tonnellate tra greggio, semilavorati e biocarburanti, con un tasso di utilizzo dell’83%.

Non va poi dimenticato che i prodotti che usiamo tutti i giorni sono resi disponibili da un sistema logistico costituito da oltre 100 depositi di capacità superiore a 3.000 mc, 2.700 km di oleodotti e da una rete di vendita al consumatore finale di 21.000 impianti distribuiti capillarmente sull’intero territorio nazionale. Per dare una misura, quotidianamente distribuiamo 112 milioni di litri di carburanti, 15 milioni di jet fuel, 9 milioni di bunker navale, 1,5 milioni di lubrificanti e 4 milioni di kg di bitumi. Un settore che, tra l’altro, produce 100 miliardi di euro di fatturato annuo, incassa per conto dello Stato 39 miliardi di euro tra accise e IVA e contribuisce alla bilancia commerciale con 13 miliardi di euro grazie all’esportazione di prodotti raffinati.

Un comparto industriale quindi di prim’ordine, che negli ultimi anni ha passato momenti molti difficili a causa della crisi che nel 2008 ha colpito l’economia mondiale, con impatti pesanti sia in termini economici che occupazionali. Cinque raffinerie sono state chiuse o trasformate in depositi, alcune compagnie multinazionali hanno ceduto, in tutto o in parte, le loro attività e quasi tutte le aziende hanno chiuso per diversi anni i bilanci in rosso. Nel complesso però il settore ha tenuto ed ha continuato ad investire per cercare di recuperare competitività e la redditività necessaria a garantire gli approvvigionamenti con la stessa capillarità e gli alti livelli di sicurezza che lo caratterizzano da sempre.

 

Come giudica l’attuale stato dei mercati petroliferi? Quali le possibili prospettive?

Negli ultimi anni i mercati petroliferi internazionali sono molto cambiati e molti equilibri sono saltati. Da un punto di vista dell’offerta, gli Stati Uniti, e non più l’Opec, sono diventati l’ago della bilancia. Grazie allo sviluppo dello shale oil, in soli otto anni hanno raddoppiato la loro produzione (+97%) rispetto al +11,5% della Russia e al +11,3% dei Paesi Opec. Lo scorso anno hanno toccato un volume di 15,4 milioni b/g, l’equivalente della produzione di Arabia Saudita, Iraq ed Ecuador messe insieme, e hanno coperto quasi per intero l’incremento registrato nella produzione mondiale.

Anche la distribuzione geografica della domanda, che nel 2018 per la prima volta ha superato i 100 milioni barili/giorno, è cambiata. Il baricentro si è spostato sempre di più verso Oriente dove si concentra il grosso della crescita, mentre in Europa diminuisce anche per effetto di politiche che puntano sul risparmio e sull’efficienza energetica.

Un mercato divenuto quindi molto più vasto, che ha naturalmente avuto riflessi sull’andamento dei prezzi, diventati più volatili e non sempre giustificabili con la sola analisi dei fondamentali.

Lo scorso anno, ad esempio, ci sono state ampie oscillazioni. Da valori intorno ai 60-65 dollari/barile di gennaio, si è arrivati a settembre oltre gli 85 dollari, per poi assistere ad un rapido ripiegamento nuovamente verso i 60 nella seconda parte di novembre, quando i soggetti che operano con fini prevalentemente speculativi si sono resi conto che il mercato era comunque ben approvvigionato, a differenza delle loro previsioni. Volendo semplificare, si può dire che i picchi di prezzo – sia in alto che in basso – possono essere imputati più allo stato atteso dei fondamentali, dal momento che la presa d’atto della realtà riporta rapidamente i prezzi su livelli più coerenti. Un trend che è proseguito anche nel mese di gennaio, con valori che hanno infatti oscillato tra 58 e 62 dollari/barile visti gli attuali equilibri tra domanda e offerta.

Quanto alle prospettive del nostro settore, non bisogna dimenticare che la fonte petrolifera copre oggi circa un terzo del fabbisogno di energia primaria e il 92% di quello nel settore della mobilità (merci e persone) e che per tutte le maggiori agenzie internazionali rimarrà centrale anche nei prossimi decenni. La sfida sarà di mantenere integra la filiera e l’identità industriale in un mercato in contrazione grazie all’efficienza dei motori.

Normalmente, quando si parla di prodotti petroliferi lo si fa però con una connotazione negativa, dimenticando quanta ricerca e sviluppo c’è dietro e quali progressi sono stati fatti da un punto di vista della sostenibilità ambientale. Le benzine, ad esempio, negli anni hanno subito profondi processi di riformulazione per consentire alle sofisticate tecniche di controllo delle emissioni allo scarico delle auto di operare correttamente. Si è intervenuti su diversi parametri – piombo, benzene, zolfo, aromatici – che hanno permesso di ridurre le emissioni nocive tra il 90 e il 98% a seconda il tipo di inquinante. Un processo di miglioramento che non si è mai fermato e su cui le aziende continuano ad investire, anche perché ricerca e sviluppo fanno parte del DNA dell’industria petrolifera e la nostra capacità di innovazione non può essere messa in discussione.

 

Come i vostri associati, e l’associazione, affronteranno la transizione energetica verso fonti low-carbon, e che ruolo possono giocare petrolio e gas in questo passaggio?

Oggi la vera sfida per il nostro settore è proprio questa, ossia come gestire questa fase di transizione verso un’economia low-carbon in un mercato in contrazione, mantenendo appunto l’integrità industriale della filiera e continuando a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, soprattutto nel settore dei trasporti che, stando a tutte le stime più accreditate, al 2030 continuerà ad essere coperto per il 75-80% dalla fonte petrolifera.

Il downstream petrolifero dovrà perciò trasformarsi e per farlo saranno necessari ingenti investimenti infrastrutturali per assicurare, da un lato, l’ammodernamento degli impianti di produzione per soddisfare i requisiti ambientali che diverranno negli anni sempre più stringenti e, dall’altro, per rispondere ai mutamenti della domanda a seguito del processo di de-carbonizzazione.

Gli investimenti già programmati dal settore da oggi al 2030 ammontano complessivamente a circa 11 miliardi di euro, in linea con il trend storico, cui vanno poi aggiunti gli investimenti complementari in infrastrutture di distribuzione e stoccaggio volti ad aumentare ulteriormente la flessibilità del sistema. I nuovi progetti riguarderanno sia lo sviluppo dei carburanti tradizionali che l’introduzione di prodotti innovativi quali i biocarburanti avanzati (sia liquidi che gassosi) e gli e-fuels. Dal 1° gennaio 2020 sarà inoltre reso disponibile un bunker fuel per le navi con un tenore di zolfo drasticamente ridotto.

Quanto al ruolo del gas, credo che rappresenti una valida alternativa per alcuni impieghi nel settore della mobilità. Nel trasporto pesante e navale, ad esempio, il GNL svolgerà un ruolo importante, mentre in quello leggero, ossia le auto che usiamo tutti i giorni, ci sono spazi per il biometano, oltre che per metano e gpl che hanno già un loro mercato consolidato.

La transizione sarà un processo lungo e complesso e ogni tecnologia dovrà essere valutata per il reale contributo che potrà offrire per rendere questo percorso sostenibile non solo dal punto di vista ambientale, ma anche economico e sociale. Ogni scelta dovrà essere supportata da valutazioni serie sulla maturità tecnologica delle diverse alternative in campo e delle infrastrutture necessarie per svilupparle e dei relativi costi/benefici. Privilegiarne una, sulla base di presunti vantaggi tecnologici ancora tutti da dimostrare, non ci farebbe raggiungere il risultato e penalizzerebbe le fasce più deboli della popolazione.

 

GNL come carburante navale in vista di IMO 2020: l’Italia è pronta?

L’industria petrolifera è assolutamente pronta a rendere disponibili prodotti con lo 0,5% di zolfo, siano essi gasoli, distillati pesanti o derivanti dalla desolforazione dei residui, anche se permangono alcune difficoltà tecniche che stiamo affrontando insieme agli armatori. Uno dei problemi più complessi da risolvere è quello della compatibilità per assicurare che, in qualunque posto del mondo, il prodotto acquistato una volta miscelato con quello già presente nei serbatoi della nave non crei separazioni di fasi, precipitazione di asfalteni o paraffine e modifiche sostanziali alle proprietà fisiche dei prodotti. Si tratta di una problematica molto difficile e complicata da controllare, sia per il gran numero di stream petroliferi che sarà possibile impiegare per formulare il nuovo bunker, sia per la mancanza di un metodo di prova in grado di predire con certezza il comportamento di due diversi fuel una volta miscelati.

A tal fine, lo scorso mese di agosto abbiamo organizzato ed ospitato, presso la nostra sede, due importanti meeting dell’ISO (International Organization for Standardization), cui hanno partecipato 25 esperti mondiali provenienti dai diversi settori del trasporto marittimo (industria petrolifera, armatori, associazioni marittime, società di classificazione, costruttori di motori navali, fornitori di additivi), proprio per cercare di trovare la giusta soluzione. Un altro meeting si è tenuto a Filadelfia a fine anno e un altro nelle scorse settimane a Copenaghen, ma non tutti i nodi sono stati ancora sciolti.

In via alternativa c’è la possibilità di continuare ad utilizzare l’attuale bunker con l’installazione sulle navi dei cosiddetti scrubber, ossia sistemi di abbattimento delle emissioni di SOx, oppure quella di impiegare il GNL.

Nel primo caso, si pone un problema di adeguamento della flotta che è un processo lungo e costoso considerato che oggi solo 400-500 navi, su una flotta mondiale di circa 80.000 unità, sono attrezzate con questo tipo di impianti.

Quanto al GNL, è sicuramente un combustibile intrinsecamente pulito che presenta costi di approvvigionamento relativamente bassi, ma pone anch’esso un problema di adeguamento della flotta in termini di tempi e costi, tenuto conto che al momento manca un codice riconosciuto a livello mondiale per la progettazione di tali tipi di navi. Un codice IMO (International Maritime Organization) ufficiale è in fase di sviluppo, ma è non ancora stato pubblicato.

Presenta inoltre una serie di problemi tecnici dovuti alle sue proprietà fisiche, tra cui una densità energetica inferiore a quella del prodotto petrolifero che comporta un volume dei serbatoi di stoccaggio del carburante a bordo della nave circa il doppio (considerando la forte coibentazione necessaria per mantenere il prodotto a 156 °C sottozero).

La scelta, comunque, alla fine spetterà agli armatori che, in base alle proprie autonome valutazioni economiche e tecniche, decideranno cosa è meglio per loro.

 

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