Da dicembre 2018 è pronto un piano, elaborato congiuntamente da Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, per il decoMmissioning di 34 impianti offshore (25 piattaforme, 8 teste di pozzo sottomarine, 1 cluster), 27 dei quali ubicati nella fascia di interdizione delle 12 miglia.
Lo sostengono le tre associazioni ambientaliste Greenpeace, Legambiente e WWF, che, prendendo atto “dell’incapacità dei ministeri competenti di decidere ed essere conseguenti, dopo due anni di serrato confronto”, hanno indetto una manifestazione davanti alla sede del MISE, durante la quale hanno diffuso alla stampa l’intero testo del documento (scaricabile a questo link: https://www.dropbox.com/sh/8hpd9c9bom3nq2q/AAD8R-bqrEyr29a4HHuF5o1na?dl=0).
L’elaborato si chiama “Dichiarazione congiunta sul Programma di attività per la dismissione delle piattaforme offshore” e, sempre secondo le tre organizzazioni, sarebbe stato sottoscritto anche da Assomineraria.
“Le associazioni – si legge nella nota congiunta di Greenpeace, Legambiente e WWF – hanno ripetutamente chiesto inutilmente in questi mesi di rendere pubblico il piano in questione, anche in considerazione dell’approssimarsi della scadenza del 30 giugno, quando il Ministero dello Sviluppo Economico dovrà procedere con la dichiarazione di dismissione mineraria prevista dal Decreto Ministeriale del 15 febbraio 2019”.
Le associazioni hanno quindi chiesto al MISE di “essere coerente con gli impegni presi” e di avviare entro fine mese “la procedura di dismissione dei primi 22 impianti e, al massimo nei prossimi due anni, degli altri 12 individuati. Ovvero quegli impianti mai entrati in produzione, non produttivi da almeno 10 anni o che non erogano gas o petrolio da almeno un quinquennio: dunque dei veri e propri relitti industriali, pericolosi per la navigazione e per l’ambiente. Di questi, 29 sono localizzati nel tratto di mare tra Veneto e Abruzzo, 2 davanti alla Puglia, 1 davanti a Crotone e 2 nel Canale di Sicilia. Dei 34 impianti, 25 sono dell’ENI (73,4%) e 9 di Edison (26,6)”
Le associazioni hanno anche ricordato che il 50% dei 34 impianti individuati dopo due anni di trattativa non ha mai avuto una procedura di Valutazione di Impatto Ambientale, perché autorizzati prima del 1986, anno in cui la VIA entrò in vigore in Italia. Tra questi impianti, 4 piattaforme hanno 50 anni o più (Porto Corsini MWA, San Giorgio a Mare 3, Santo Stefano a Mare 1.9, Santo Stefano a Mare 3.7), 4 più di 40 (Armida 1, Diana, San Giorgio a Mare C, Santo Stefano Mare 4), tutte localizzate nel tratto di mare tra Veneto e Abruzzo, e ben 13 (il 38,2%) tra i 30 e 40 anni.
Gli ambientalisti hanno quindi aggiunto che dei 34 impianti, 27 (pari al 79,4%) sono localizzati nella fascia di interdizione a nuove attività offshore delle 12 miglia, istituita nel 2013 a tutela delle nostre acque territoriali e degli ambienti costieri. Greenpeace, Più in generale, sono 138 gli impianti offshore localizzati nei nostri mari, 94 dei quali nella fascia delle 12 miglia e che di questi, ben il 44,6% non sono mai stati sottoposti a VIA.