sabato, Novembre 23, 2024

QATAR FUORI DALL’OPEC: L’ANALISI DI ISPI

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Pubblichiamo l’analisi dell’ Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI) sugli effetti della recente uscita del Qatar dall’OPEC, l’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio.

 

Vertice OPEC: senza Qatar cosa cambierà?

 

Lo scorso lunedì, il ministro dell’energia del Qatar Saad Sherida al-Kaabi ha reso nota l’intenzione di Doha di abbandonare – a partire dal prossimo gennaio – l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC), alla quale il paese appartiene dal 1961. La decisione del Qatar è arrivata alla vigilia del vertice OPEC di giovedì e venerdì a Vienna, durante il quale i paesi membri, insieme ai principali non membri, dovranno formulare una risposta all’attuale crisi dei prezzi. Ufficialmente, la motivazione addotta da Doha per la sua decisione è la volontà di concentrarsi sul gas naturale, la vera ricchezza qatarina, per portare le esportazioni di LNG dagli attuali 77 milioni di tonnellate equivalenti a 110 milioni. Nella realtà, è difficile non vedere dietro la decisione qatarina i riflessi della spaccatura ormai sempre più profonda in seno al Golfo, che vede opporsi Qatar e Arabia Saudita (alla guida di un più ampio fronte regionale). La decisione di Doha sembra essere poi indicativa di una crisi esistenziale del cartello petrolifero, eredità di una geografia dell’energia che forse non esiste più.

 

 

Il Qatar esce dall’OPEC: cause e conseguenze

 

Sebbene Doha abbia negato che la propria decisione abbia motivazioni politiche, essa rappresenta un chiaro segnale in questo senso. Negli ultimi anni, e soprattutto a partire dal 2016, l’OPEC è divenuta un’organizzazione a chiara egemonia saudita. Gli accordi che regolano i tagli della produzione e le conseguenti variazioni di prezzo sono presi da Riyadh insieme agli altri due principali esportatori mondiali di petrolio, Russia e Stati Uniti, che non sono però membri OPEC. Il piccolo Qatar lancia quindi un chiaro segnale a Riyadh, confidando in un effetto esempio verso gli altri piccoli produttori che rimangono per ora parte del cartello.

Il Qatar da solo non ha il potere di influenzare i mercati globali: con una produzione di 600.000 barili al giorno, rispetto agli 11 milioni dell’Arabia Saudita, Doha rappresenta circa l’1,8% della produzione totale OPEC. Tuttavia, se altri paesi piccoli produttori seguissero l’esempio di Doha, la loro decisione potrebbe avere un peso geopolitico (ed economico) superiore. Se l’OPEC ha dunque resistito per quasi 60 anni privilegiando la dimensione del comune interesse economico rispetto a quella del conflitto e delle divisioni politiche (la guerra Iran-Iraq, le guerre del Golfo), oggi l’organizzazione è messa in forte crisi proprio dall’inasprirsi delle rivalità regionali.

Collegato alla prima motivazione, l’altro messaggio implicito nella decisione di Doha è la volontà di ribadire la propria indipendenza da Riyadh anche riguardo alle decisioni di politica energetica, a fronte invece del tentativo da parte saudita-emiratina – in corso da più di un anno – di limitare quella che è percepita come un’indipendenza eccessiva da parte di Doha.

 

 

Tra OPEC E OPEC Plus: leadership saudita alla prova

 

Nata nel 1960 come organizzazione dei cinque maggiori produttori petroliferi dell’epoca (Arabia Saudita, Kuwait, Iran, Iraq e Venezuela), l’OPEC si è successivamente ampliata fino a raggiungere un totale di 15 membri, tra cui il Qatar, primo paese della regione MENA a unirsi ai cinque paesi fondatori (nel 1961), e, dal prossimo gennaio, primo paese della regione a decidere di uscirne.

A partire dal 2014, la rivoluzione dello shale oil USA, oltre a ridurre fortemente la dipendenza statunitense dal petrolio del Golfo, ha spinto l’Arabia Saudita a cercare di rivendicare la propria autorità sui mercati dell’energia tagliando la produzione: l’intento saudita era quello di mantenere i prezzi su un livello basso, in modo da scoraggiare i produttori di shale oil statunitensi. La scommessa saudita non è però andata a buon fine, e dal 2016 i paesi OPEC, insieme ai maggiori produttori non-OPEC come la Russia e l’Azerbaijan (OPEC Plus) hanno concordato periodici tagli della produzione allo scopo di far rialzare i prezzi e dare così sollievo ai bilanci statali.

Anche il vertice OPEC di giovedì 6 e venerdì 7 novembre, a cui si aggiungeranno nella seconda giornata anche i paesi non OPEC, è teso al raggiungimento di un accordo di questo tipo, allo scopo di arrivare a un nuovo rialzo dei prezzi, dopo il drastico calo del 30% degli ultimi due mesi, che ha portato il barile attorno ai 60$. Di fronte a una produzione statunitense in crescita, e con Russia e Arabia Saudita vicine ai massimi livelli di produzione (anche per colmare il parziale gap apertosi con l’estromissione dell’Iran dal mercato a seguito delle sanzioni USA), la scelta più razionale da parte dell’OPEC Plus sarebbe quella di concordare un taglio della produzione. Questa decisione però dipende anche da variabili geopolitiche: la posizione – e il margine d’azione – dell’Arabia Saudita, in particolare, sembra essersi ristretto in seguito al caso Khashoggi, che ha esposto il Regno a un aumento delle critiche internazionali tra cui numerosi appelli da parte di deputati USA a rivedere l’alleanza con Riyadh, che in molti giudicano non più così strategica. Se è vero che il presidente Trump ha più volte ribadito di non voler mettere in discussione quest’alleanza, è vero però anche che il mantenimento di questo sostegno potrebbe essere legato all’implementazione da parte di Riyadh di misure che Washington chiede da una posizione di forza: tra queste proprio il mantenimento dei livelli di produzione petrolifera attuali, con il conseguente mantenimento del basso livello dei prezzi. Riyadh si trova dunque nella difficile posizione di dover combinare la doppia esigenza di mantenimento di una fondamentale relazione con Washington, ma anche di alzare i prezzi allo scopo di raggiungere il prezzo che le permetterebbe di pareggiare il bilancio, che il FMI stima essere tra gli 85 e gli 87 dollari al barile.

 

 

Crisi nel GCC: deve siamo un anno dopo

 

L’annuncio qatarino di uscita dall’OPEC non è stata l’unica evoluzione diplomatica a sorpresa della settimana: due giorni fa il re saudita Salman ha invitato ufficialmente l’emiro qatarino Sheikh Tamim bin Hamad Al Thani a partecipare al summit del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) in programma a Riyadh il prossimo 9 dicembre. Mentre il Qatar non ha ancora reso nota la disponibilità a partecipare al summit, il fatto stesso che Doha abbia ricevuto l’invito a partecipare è stato interpretato come un segnale di distensione nella crisi che da più di un anno lacera il GCC. Era il 5 giugno 2017, infatti, quando, Arabia Saudita, UAE, e Bahrein, insieme all’Egitto, hanno annunciato a sorpresa la loro intenzione di interrompere ogni relazione diplomatica ed economica con il Qatar. Da allora, Doha è oggetto di un vero e proprio blocco politico e commerciale teso a strangolare economicamente il piccolo emirato per interromperne qualsiasi velleità di indipendenza in politica estera. Inizialmente in grave difficoltà soprattutto a causa del blocco dei rifornimenti alimentari dall’Arabia Saudita, il Qatar ha però trovato il supporto di Turchia e Iran, che hanno visto nella crisi fra le monarchie del Golfo l’occasione per consolidare le proprie relazioni diplomatiche con ricco emirato, e grazie ai quali oggi Doha sembra in grado di reggere l’urto del blocco dei vicini regionali. I colloqui per la ricomposizione della crisi, mediati dal Kuwait, non hanno fino ad ora ottenuto risultati rilevanti: se, da una parte, i sauditi e i loro alleati hanno avanzato richieste considerate inaccettabili da Doha (compresa la chiusura definitiva della rete televisiva Al-Jazeera) dall’altra, dopo aver preso pubblicamente misure così drastiche, sauditi ed emiratini non possono ritirarsi senza ottenere una contropartita di rilievo. Anche in questo caso, però, l’onda lunga del caso Khashoggi potrebbe arrivare a lambire il Golfo e avere un ruolo nella ricomposizione della crisi. Sotto pressione internazionale per il caso del giornalista ucciso, il Regno saudita potrebbe essere spinto a scendere a compromessi sulle proprie azioni più controverse tanto in politica interna quanto in politica estera. Non è escluso, infatti, che gli stessi Stati Uniti – che hanno tutto l’interesse alla ricomposizione della crisi interna al GCC – abbiano esercitato pressione sull’alleato saudita, e in particolar modo sul re Salman, considerato la controparte più affidabile alla spregiudicatezza del giovane principe Mohammad bin Salman, affinché agisca in questo senso.

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