Mentre il mercato del petrolio inizia ad intravvedere, anche se da lontano, una possibile ‘pace’ che consentirebbe di tagliare finalmente la produzione mondiale e quindi sostenere l’oggi bassissimo prezzo del barile, l’Arabia Saudita fa shopping sulle principali Borse del mondo, compresa Piazza Affari dove ha ‘rastrellato’ una considerevole quantità di azioni dell’Eni.
In una mossa che appare evidentemente speculativa – approfittare dell’attuale basso prezzo dei titoli, dovuto al crollo del mercato, nella convinzione che, proprio grazie agli accordi in vista, il loro valore possa salire nel corso delle prossime settimane – secondo quanto riferito da diversi media internazionali il regno saudita, tramite il suo fondo sovrano, il Public Investment Fund (PIF), avrebbe acquistato sul mercato azioni delle 4 oil major occidentali Royal Dutch Shell, Total, Equinor ed Eni, per un investimento complessivo che le stesse fondi di stampa identificano in oltre 1 miliardo di dollari (cifra comunque esigua se rapportata alla ‘potenza di fuoco’ del fondo saudita, che solo dalla recente quotazione di Saudi Aramco ha raccolto più di 350 miliardi di dollari).
Mossa che sembra essere stata messa a segno con un timing davvero perfetto: se infatti le azioni sono state acquistate nelle scorse settimane, quando il mercato petrolifero si trovava nel pieno della sua depressione, dovuta all’impatto del coronavirus (e sopratutto delle misure di lockdown) sulla domanda di prodotti raffinati ma anche e soprattutto alla guerra commerciale scatenatasi tra OPEC (e Arabia Saudita in particolare) e Russia, per il predominio sul mercato.
Scontro di cui stanno facendo le spese in primo luogo i produttori di shale oil americani, gravati da pesanti esposizioni finanziarie e da costi di produzione ben più alti rispetto ai competitor internazionali, ma che potrebbe essere ormai prossimo ad una conclusione.
Secondo gli ultimi resoconti delle agenzie di stampa, infatti, i membri dell’OPEC e la Russia (il cosiddetto OPEC+) avrebbero raggiunto un accordo su un netto taglio della produzione, che potrebbe diventare definitivo se aderiranno altri Paesi produttori come il Messico e gli USA (il si americano appare scontato, proprio perchè quello di Washington è il Governo più interessato a sostenere il prezzo del barile per salvare la sua industria petrolifera nazionale).
Il taglio ipotizzato sarebbe nell’ordine dei 10 milioni di barili al giorno (mbpd) per l’OPEC, a cui si aggiungerebbero ‘cut’ per altri 5 mbpd dei produttori extra-OPEC, arrivando ad una riduzione complessiva dell’output mondiale di petrolio di 15 milioni di barili al giorno. Non si sa se la quantità sarà sufficiente a riportare il mercato su valori più ‘ragionevoli’, ma certo è che si tratta di un segnale netto verso la direzione di una ‘normalizzazione’.